Usa, il vino è finito e l’Italia è in ritardo

Nov 10, 2012 3350

Il mercato del vino negli Stati Uniti tende all'equilibrio fra domanda e offerta, le importazioni dall'estero dunque aumentano ma i produttori italiani sono in ritardo nel cogliere tale opportunità. È questo lo scenario che emerge dalla lettura dei dati sull'andamento del mercato del vino negli Stati Uniti a partire dal «Rabobank Wine Quarterly Q2 Report» che mette in evidenza come «l'industria globale sia vicina all'equilibrio fra produzione e domanda a causa della riduzione delle scorte», e ciò ha portato in particolare negli Stati Uniti a «oltre il raddoppio delle importazioni da 58 a 143 milioni di litri nei primi tre mesi del 2012».

Tale fenomeno si deve al fatto che «la produzione domestica sta cercando delle alternative al mercato della California», come di altri Stati a cominciare dall'Oregon, sempre più in difficoltà a causa della diminuzione dell'offerta dovuta in gran parte all'aumento dei prezzi di produzione che riducono drasticamente i profitti delle aziende locali.

Il risultato è che il mercato americano si presenta come un'opportunità per i Paesi esportatori di vino e, sempre secondo il rapporto di Rabobank, chi più se ne sta approfittando è il Cile, che nel primo trimestre del 2012 ha compiuto un balzo in avanti del 102%, seguito da Argentina e Nuova Zelanda.

A indebolirsi invece è la posizione del «made in Italy» che, rispetto al record del 2011, ha registrato una diminuzione delle esportazioni del 5,6% del volume e del 3,8% del valore nei primi quattro mesi dell'anno. «L'Italia resta il maggiore esportatore di vino negli Stati Uniti - attesta uno studio dell'Italian Wine & Food Institute - grazie al 23,5% della quantità ed al 32,6% del valore, tuttavia è l'unico Paese dei maggiori cinque esportatori in America che sta registrando una diminuzione del business», a vantaggio dei concorrenti Australia, Argentina, Cile e Francia.

A spiegare il perché di questo fenomeno è Lucio Caputo, titolare dell'«Italian Wine & Food Industry», secondo il quale «in un mercato americano indebolito dalla crisi economica, dove i consumatori cercano sempre più vini con prezzi bassi, quelli italiani continuano ad essere i più cari senza essere accompagnatidallanecessaria promozione». Da qui l'intenzione di Caputo di riunire in dicembre a New York i maggiori produttori italiani per studiare una campagna di diffusione «capace di far apprezzare agli americani il nostro vino come fanno per le auto Ferrari o le magliette di Armani».

A confermare l'esistenza di nuove prospettive per gli esportatori in America è Pierre Geraud, dell'Agenzia francese per il commercio estero, secondo il quale «i nove litri per abitante del 2012 diventeranno 13,5 nel 2025 e già quest'anno la domanda ha superato l'offerta, tanto che dopo 10 anni di sovrapproduzione e prezzi bassi, i venditori di vino sfuso della California sono in una posizione di forza».

Per questo i prezzi di vini sfusi come il Pinot Nero e lo Zinfadel hanno registrato aumenti in California fra il 30 e il 50% mentre il Moscato è triplicato. Su tale scenario incombe l'incognita dell'impatto della forte siccità che ha investito grande parte degli Usa perché il clima secco, che nuoce a soia e granoturco, può invece giovare alle viti.

«La regola generale è che alle viti il clima secco piace», osserva Chris Blosser, general manager dei vigneti Breaux della Virginia, secondo il quale «aumenta la concentrazione di zucchero nell'uva, rafforzandone il sapore che invece soffre dall'eccesso di precipitazioni».

Come dire: la finestra di tempo a disposizione degli importatori stranieri per rafforzare la propria posizione sul mercato potrebbe essere assai stretta.

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