A cura di Maria Teresa Cannizzaro, Fiorella Operto e Marco Violi. Galleria dei ritratti del Museo Diocesano di Imola. 7 dicembre 2019 │ 16 febbraio 2020. Oggetto dell'esposizione – in un suggestivo allestimento, che sottolineerà in particolare i cosiddetti bijoux delle feste – circa 300 pezzi (dagli anni '20 ai '70) prodotti dalle più importanti maison americane da Trifari a Kenneth Jay Lane e Pell. Alla fine degli anni ’50 erano occupate nell'industria della “costume jewelry” di Providence circa 270.000 persone, moltissime delle quali erano italiani emigrati negli States.
Talune manifatture avevano in produzione creazioni così apprezzate da essere acquistate addirittura a peso e vendute dai dettaglianti in tutti gli stati dell'Unione. Questi oggetti, che conquistarono donne e uomini di ogni condizione sociale, sono ormai considerati una delle più chiare espressioni dello spirito democratico, che l’America ha esportato ovunque. Senza la paziente opera creativa di moltissimi italiani, le grandi firme – nella maggior parte dei casi – non sarebbero diventate tali.
Esiste un interessante filo conduttore dimostrativo del fatto che i materiali “poveri” utilizzati da abili artigiani possono esaltare sia la tradizione che la moda. Questo è vero
soprattutto nella produzione della bigiotteria americana, ma lo è anche nella straordinaria esperienza della produzione di Casalmaggiore, a cui è dedicata una piccola, ma significativa sezione della mostra. Negli anni ’30, quando a Providence la produzione industriale della bigiotteria vede il proliferare di centinaia di fabbriche, grazie essenzialmente all’apporto della creatività di artigiani italiani, in Italia raggiunge il culmine la produzione del “fabbricone” di Casalmaggiore: in entrambe i casi l’uso di materiali poveri permette la creazione di infiniti modelli che esaltano la tradizione: negli States verranno così creati bijoux relativi alle festività più sentite dagli americani (Valentine’s day, Mother’s day, ecc.), quanto al Natale non si proporranno presepi e natività, ma alberelli, Babbo Natale, ecc., la tradizione dunque si arricchisce; a Casalmaggiore, invece, si producono ricordini religiosi per i santuari di Europa e Sud America e souvenir di città d’arte (trasposizione del Gran Tour) su cucchiaini, portacipria, porta sigaretta, ecc. La perizia degli artigiani capaci di realizzare bijoux di
alta qualità attira sia l’attenzione dei produttori di Hollywood, sia quella di geniali disegnatori come Kenneth Jay Lane, che lavoreranno sempre a stretto contatto con artigiani italiani, così abili da aggiornarsi continuamente. A Casalmaggiore per andare incontro alle esigenze della emergente borghesia, che vuole ben apparire ed essere alla moda, si creano monili di ogni tipo.
Perché Providence? Il desiderio indomabile di trovare la pietra filosofale, capace di trasformare il metallo vile in oro, sembra in qualche modo realizzarsi quando, alla fine del XVIII secolo, nasce prima in Francia ed in Inghilterra e poi in America una vera e propria industria dell'ornamento non prezioso. Le motivazioni dell’alto concentrarsi prima di botteghe e poi di fabbriche per la lavorazione dei materiali, che dell'oro hanno almeno l'apparenza, proprio nel più piccolo degli appena formati Stati Uniti d’America sono innanzi tutto di carattere storico-geografico. Il Rhode Island, apparso a Giovanni da Verrazzano che vi arrivò per primo nel 1524, bello come l’isola di Rodi, divenne infatti rapidamente il più densamente popolato ed il più industrializzato dell’Unione, poiché ricco di fiumi, ampie spiagge e porti. La presenza di facili attracchi naturali favorì infatti spedizioni e commerci di ogni tipo, tanto che nel 1644 il minuscolo, ma vitalissimo, insediamento nella baia di Narraganset, Providence, chiamato così dai coloni che volevano ringraziare la Divina Provvidenza di averli guidati fin lì sani e salvi, divenne colonia reale inglese e quando – nel 1663 – un decreto della Corona garantì la totale libertà di religione sempre più numerosi ebrei, battisti, quaccheri cominciarono a
giungere in quella che sarebbe divenuta la capitale dello stato. Il massiccio arrivo di bianchi, animati da forte spirito imprenditoriale, complicò i rapporti tra coloni e nativi,
da cui all’inizio molta terra era stata pacificamente comprata, ed in breve questi ultimi furono costretti a migrare verso il Canada e l’Ovest, lasciando mano libera ai nuovi arrivati. L’economia, fino ad allora prevalentemente contadina, si trasformò in mercantile con impressionante rapidità: a metà del ‘700 i velieri americani avevano già ingaggiato un commercio con l'Africa, e la tassa d’importazione dovuta per ogni schiavo garantì entrate con cui fu sovvenzionata la costruzione di infrastrutture di ogni genere, specie strade e ponti, che, collegando i singoli insediamenti della colonia, favorirono gli spostamenti ed ulteriori commerci. Nel 1781 John Brown, l’avventuroso armatore della più importante famiglia della storia di Providence, cedendo alle pressioni della religiosissima moglie quacquera, fieramente ostile al commercio degli schiavi, e convinto soprattutto dalla perdita di un intero “carico” a causa di una tempesta, aprì una nuova rotta, spedendo la prima nave in Cina. Il suo esempio fu subito seguito da molti altri armatori. Imprenditori, capitani di navi, commercianti, che, grazie a traffici più o meno leciti, con l’Africa e l’Asia avevano ammassato enormi quantità di ricchezze, cominciarono perciò a voler ostentare la propria opulenza, ma anche a pensare che sarebbe stato più prudente far fondere le monete d`oro per farne oggetti ornamentali per sé e per l’abitazione, più facilmente riconoscibili – in caso di furto – per la presenza delle iniziali del proprietario. Si venne così a realizzare un'altra delle importanti condizioni per la nascita dell'industria della bigiotteria proprio in questo stato, privo di materie prime e così piccolo da essere affettuosamente chiamato Little Rody, poiché la forte richiesta del mercato incoraggiò esperti argentieri ad istallarsi in zona: tutta la città di Providence, e soprattutto la North Main Street, oggi amorevolmente riportata all’antico splendore grazie ad un’opera di meticoloso restauro voluta dal sindaco di origine italiana, “Buddy” Cianci, vide una notevole concentrazione di artigiani capaci di produrre piccoli articoli decorativi di metallo. Nell’ottobre del 1786 in un articolo del Providence Journal si sosteneva che la località era ormai riconosciuta in tutta l’America come il luogo dove si producevano i più bei monili ed oggetti fatti anche con materiali non preziosi.
Gli artigiani. L’industria della costume jewelry non fu infatti l’unica a svilupparsi a Providence e nelle zone vicine, bagnate dalle abbondanti acque dei fiumi Pawtucket e Blackstone. Lo sviluppo dell’industria metalmeccanica fu il fertile terreno in cui si alimentò il cambiamento radicale nella produzione dei bjioux. Con la costruzione di macchine capaci di tagliare, sagomare e saldare i componenti base di ogni oggetto di gioielleria la produzione diventò infatti in gran parte meccanizzata e scomparve quasi del tutto la figura dell’artigiano specializzato in grado di seguire tutto il procedimento dall’ideazione del disegno alla lucidatura dell’oggetto finito. Molte delle fasi della lavorazione, rigidamente distinte e suddivise, poterono essere affidate a lavoratori non specializzati, i “bench workers”, adatti a realizzare una produzione di massa.
Era logico che all’eccezionale crescita della produzione industriale corrispondesse un notevole incremento nella immigrazione tanto che tra il 1850 ed il 1920 raggiunsero entrambe livelli elevatissimi. Se i primi immigrati inglesi, irlandesi e tedeschi si erano diretti verso le più fertili terre del Nord e dell’Ovest, la seconda ondata migratoria, costituita da individui molto più poveri provenienti dall’Europa orientale e meridionale, si diresse soprattutto verso le città industriali dell’Est e del Middle West, dove le opportunità di lavoro erano moltissime, dove esistevano già piccoli gruppi di “paesani” e soprattutto chiese e missionari cattolici, che fornivano assistenza non solo morale. Tanto per ricordare un nome noto, Madre Francesca Cabrini, arrivata nel 1886 con uno sparuto gruppo di sei consorelle della Congregazione del Sacro Cuore, instancabilmente organizzò orfanatrofi, ospedali, mense, tentando con un testardo coraggio da santa di portare un qualche sollievo alle sofferenze di ogni genere degli immigrati. Ovviamente la prima tappa era NY, dove li accoglieva padre Cogo confessore della Cabrini. Nella seconda metà dell’Ottocento intraprendenti compagnie di navigazione mantenevano in Polonia, Grecia, Italia centinaia di agenti incaricati di reclutare passeggeri di terza classe, a cui prima della partenza astuti “padroni” garantivano, con condizioni capestro, una occupazione nel Nuovo Mondo. Quando nel 1911 la Fabre Line aprì un collegamento diretto tra Napoli, Palermo e Providence partirono migliaia di persone. Intorno al 1915 il 14% della popolazione della città era costituito da italiani, che trovarono facilmente posto nella produzione della costume jewelry: circa la metà della forza lavoro in questo campo fu costituita da donne, che furono determinanti soprattutto per la diffusione capillare del lavoro in casa. Donne come Virginia Solmonese, figlia di emigrati, che nel 1922, a 14 anni, volle alleviare le fatiche della madre vedova lavorando per 15 centesimi l’ora, e quella di Clara Perillo, che a 16 anni, mentre incollava 144 strass per guadagnare 4 centesimi, sognava di diventare medico o quella di Yvonne Patalano, che, nel non così lontano 1954, fu orgogliosissima per essersi fatta assumere nella grande Brier’s a 75 centesimi l’ora. Tante altre vicende come queste sono raccolte da Naida Weisberg per una “storia orale” dei lavoratori di Providence, nata dal desiderio che resti traccia tangibile di tanto fervore, impegno ed anche successo raggiunto da gente arrivata spesso poverissima nel Nuovo Mondo, ma non certo priva di coraggio e di voglia di riuscire ad ogni costo.
Del resto con i bijoux bastava un piccolo capitale per iniziare un business, tanto più destinato ad avere successo quanto più la famiglia era numerosa, poiché anche i bambini, dopo la scuola, riuniti attorno al tavolo da cucina, potevano collaborare all’assemblaggio dei pezzi, all’incollatura delle pietre, all’imbustatura del prodotto finito. Si trattava di un lavoro generalmente a cottimo, retribuito con pochi centesimi, ma pulito, per certi aspetti anche divertente e che soprattutto alimentava in loro la speranza di avere l’opportunità di realizzare, un giorno, il sogno americano.
Gli Italiani: firme note e firme da riscoprire. La grande richiesta da parte del pubblico stimolò l’interesse di designers sempre più qualificati che valorizzarono tanto la qualità dei bijoux da permettere l’affermazione di nuove tendenze stilistiche autonome e sempre più ricercate in tutti gli stati d’America. La quasi totalità della produzione veniva realizzata nel raggio di 15 chilometri intorno al Campidoglio di Providence, da manifatture, che divennero notissime e in cui lavoravano a vario titolo emigrati italiani. Per la Miriam Haskell, che porta il nome della fondatrice (nel cui Show Room di New York ancora si replicano modelli d’intramontabile bellezza), hanno disegnato anche italiani come Millie Petronzio, figlia di emigrati dal piccolissimo paese di Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria.
L’estroso Gene Verri, quale capo disegnatore alla Coro Inc dal 1935 al 1950 con la sua passione e precisione ne rinnovò il look, facendola diventare la prima manifattura d’America. Era nato col nome di Guido Verrecchia a Providence nel 1911 da genitori immigrati dal Molise qualche anno prima. Terminato il suo lavoro alla Coro, aprì una sua manifattura, la Gem-Craft, chiamata così per sottolineare l’importanza della collaborazione col suo gemello monovulare Alfeo, apprezzato pittore. Oggi continua la tradizione di famiglia il figlio Ron, che produce bigiotteria di altissima qualità, realizzando anche le creazioni di firme prestigiose come Kenneth Jay Lane e Oscar de la Renta. “Ognuno vuol mettere le mani su Panetta”, diceva un famoso manifesto pubblicitario, dove Armando Senior compariva circondato da curatissime mani femminili, ornate da alcuni eleganti anelli del ricco catalogo della ditta. Il patriarca della famiglia, Benedetto, aveva usato brillanti per creare i suoi gioielli veri prima in Italia e poi nel negozio di New York appena emigrato negli Stati Uniti; quei brillanti che Armando Senior aveva imparato ad incastonare, mentre suo fratello Amedeo aveva preferito imparare a scolpire prototipi all’insegna del motto “Se non è perfetto, non lo voglio fare”. Dal 1945, anno della fondazione della manifattura di bijoux, al 1993, quando la firma smise di produrre, le creazioni ebbero sempre un altissimo livello sia per la qualità del lavoro artigianale, identico a quello profuso per gioielli, sia per la scelta dei materiali utilizzati.
La storia di Augusto Trifari è quella di un abile artigiano nato a Napoli nel 1883 che, facendo leva sulle proprie capacità ereditate dalla tradizione di una famiglia di orafi, emigra nel Nuovo Mondo in cerca di fortuna probabilmente nel 1900-1901, riuscendo a diventare uno dei più importanti realizzatori di bigiotteria. Grazie alla sua abilità ed ad una serie di circostanze, di persone e di scelte giuste Trifari, firma nota in tutto il mondo tra i collezionisti di bijoux americani, diventa non solo un simbolo della costume jewelry, ma anche del sogno americano, della possibilità di ottenere grazie alla tenacia e alle proprie a capacità il successo e la prosperità per la propria famiglia e per migliaia di operai.
Difficile trovare nelle Antiques e nei mercatini dell’antiquariato i bijoux firmati Mimi di Niscemi perché chi li ha non se ne priva facilmente, considerandoli belli al pari di quelli veri. Principessa di Valguarnera per nascita e principessa Romanov per matrimonio, si può dire che Mimi l’amore per l’arte l’abbia nel sangue, appartenendo alla stessa famiglia dell’immaginifico duca-gioielliere Fulco di Verdura, a cui deve la scelta di lasciare il campo dell’argenteria e della gioielleria per quello dei bijoux.
Nel 2015 ha chiuso definitivamente i battenti l’ultimo frammento della “storia” della famiglia Gaeta, i cui membri per più di settanta anni si erano dedicati alla produzione di bijoux di alta qualità firmati Pell, americanizzazione del nome del capofamiglia, Pellegrino. Nel 1940 a New York, in Astoria, uno dei tradizionali luoghi d’insediamento della comunità italiana, Gaeta, che in Italia era stato ragazzino di bottega di un incassatore di brillanti, era riuscito ad aprire in un semplice grande capannone una delle poche fabbriche di bigiotteria esistenti fuori di Providence. Fantasia e abilità creativa, scelta di materiali di ottima qualità, specialmente pietre Swaroski di prima scelta, processo di lavorazione semiartigianale, perché ogni pezzo veniva lucidato a mano!, passione per il lavoro da parte degli operai, che il “padrone” italiano faceva sentire come membri di una unica grande famiglia, furono questi gli ingredienti di un successo duraturo. Milioni di donne americane hanno indossato per il giorno del matrimonio una paroure firmata Pell. La ricca varietà di modelli, in particolare di spille, oggi altamente collezionabili, rispecchia da una parte la profonda nostalgia per la terra lontana e la vita vissuta in Italia fino alla prima giovinezza, dall’altra però anche un sincero desiderio di integrarsi nella terra che generosamente l’aveva accolto con tutta la famiglia, dandogli la speranza e l’opportunità di realizzare grandi sogni. La sua produzione mostra un particolare interesse per le cosidette novelties, cioè per i bijoux da indossare in festività come San Valentino, Pasqua e, soprattutto, Natale (interpretati però in chiave protestante).
Uno dei figli più famosi di Providence, alla cui prestigiosa School of Design si diplomò molto giovane e dove comprò la sua prima piccolissima azienda, all’inizio della sua fortunata carriera, è Kenneth Jay Lane, arrivato nella Grande Mela a metà degli anni ’50. Le sue prime creazioni, come quelle disegnate per Jacqueline Kennedy dal 1962 in poi, sono andate all’asta in sedi prestigiose a prezzi non dissimili da quelli battuti per gioielli veri. Non si contano le dive di Hollywood che ha adornato con i suoi gioielli: da Audrey Hepburn a Sophia Loren, da Liz Taylor a Greta Garbo. Kenneth, tuttavia, ha reso possibile alle donne di qualunque ceto sociale possedere un “multiplo” degli stessi gioielli che ornano una principessa o una first lady.
Promotori: Museo e Pinacoteca Diocesani di Imola | Associazione Passato&Futuro Roma - Italian Vintage Fashion & Costume Jewelry Club
Collaborazione: Museo del Bijou di Casalmaggiore
Patrocinatori: IBC della Regione Emilia-Romagna | IAM di New York (Italian American Museum of New York).
Main sponsor: Fondazione Cassa di Risparmio di Imola|Confartigianato Imprese Bologna Metropolitana|Fondazione Istituzioni Riunite di Imola|Allianz Bank Private senior partner Silvana Cortecchia.
Sponsor: Rotary club Imola|Lions Club Imola Host|Credito Cooperativo Ravennate Forlivese & Imolese|Normanni Assicurazioni Imola gruppo Cattolica Verona|ICEA Impresa di Costruzioni Civili ed Industriali|Giacometti Impianti Imola|Associazione ristoratori e albergatori del comprensorio imolese|Pro Loco di Imola.
Sponsor tecnici: Hotel Ziò|Osteria del Vicolo Nuovo|Editrice La Mandragora
Allestimenti: La Serra Garden Center
Media partner: Il nuovo Diario Messaggero
L'inaugurazione è fissata per sabato 7 dicembre alle ore 17.30.
Saluti: Mons. Giovanni Signani, Presidente del Capitolo della Cattedrale di Imola. Marco Violi, Vicedirettore del Museo Diocesano di Imola
Intervengono: Maria Teresa Cannizzaro, Presidente dell’Associazione Passato&Futuro. Fiorella Operto, Segretario generale dell’Associazione Passato&Futuro. Letizia Frigerio, Conservatore del Museo del Bijou di Casalmaggiore
A seguire inaugurazione e visita guidata alla mostra
MUSEO E PINACOTECA DIOCESANI DI IMOLA e DELLE CARROZZE. Palazzo Vescovile | Piazza Duomo, 1 - 40026 Imola (Bo). Orari di apertura: martedì, mercoledì e giovedì: ore 9-12; martedì e giovedì: ore 14-17; sabato: ore 10-13 / 15.30-18.30 (tutti i sabati visita guidata alle ore 17); domenica: ore 15.30-18.30. Info tel. 0542 25000 [email protected] www.facebook.com/museodiocesanoimola
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